Il ritardo accumulato dall’Italia nell’occupazione femminile è un dato tangibile e riscontrabile anche nell’ultimo aggiornamento Eurostat che vede alcune Regioni veramente lontane rispetto a una media non accettabile, ma diffusa un po’ ovunque.
Dovremmo chiederci quali sono le ragioni di questa situazione, ma soprattutto, avere le soluzioni, visto che tale evidenza ci accompagna ormai da diversi anni, e seppur, qualcosa sia cambiato, non è certo abbastanza.
Pensate che nel nostro Paese nel 1977 solo una donna su tre risultava occupata; nel 2018, dopo 41 anni, siamo arrivati a quasi una su due (49,5%, fonte Istat).
La ragione storica prevalente è sicuramente da rintracciare nel ruolo di mamma, infatti, il divario tra occupazione maschile e femminile aumenta sempre in presenza di figli; certo, moltissimo se sono più di tre ed è una condizione ormai rara, data la tendenza media rafforzata negli ultimi anni a non fare figli. Ma questo elemento di spartiacque è significativo in una società evoluta e civile come dovrebbe essere quella odierna.
Un altro fattore su cui si amplia il divario tra i due generi è dato dal lavoro part time, che evidenzia la necessità di conciliare i tempi familiari con quelli lavorativi: nell’Ue del 2019, il 30 % delle donne occupate lavora part-time, contro il l’8 % degli uomini. Se volessimo mappare gli Stati virtuosi, per i quali il tasso di disoccupazione femminile è più basso, abbiamo Lettonia e Lituania, mentre quelli in cui non c’è semaforo verde sono Grecia e Spagna, insieme a noi.
Torniamo in Italia agli ultimi numeri Eurostat; nell’anno della pandemia quattro Regioni risultano tra le cinque peggiori nell’Unione Europea a 27, alle spalle solo della Mayotte, Regione d’oltremare francese. Un 2020 in cui la media europea di occupazione femminile del 62,4% per le donne tra i 15 e i 64 anni ha visto la Campania in calo al 28,7%, la Calabria al 29% e la Sicilia al 29,3%. Di fronte a queste cifre non si può rimanere in silenzio.
La fotografia fa capire ancora una volta che qualcosa non funziona, ma a questo punto, non si può continuare ad aspettare che funzionerà e che cambino le cose. Bisogna trovare il coraggio di andare ad analizzare le ragioni macroeconomiche, perché questi sono solo gli esiti micro.
Il mio pensiero è che il “laissez-faire” produce ed allarga le disuguaglianze perché crea un sistema nel quale vince sempre il più forte, e soprattutto, non consente al più debole di emergere perché toglie l’intervento pubblico mirato di politica economica fiscale e sociale, in grado di mantenere un equilibrio economico interno virtuoso.
Inoltre, eventi negativi straordinari accentuano e amplificano i divari. Oggi siamo nella situazione di dover intervenire e rimuovere differenze che continuano a crescere. Come possiamo farlo?
Studiando l’economia, approfondendo tematiche fondamentali che vengono sempre e solo trattate in un’unica direzione, dalle stesse voci senza alcun risultato. Cercando un confronto diverso, alternativo, che faccia ripartire il dibattito politico costruttivo per uscire dai fanalini di coda nei quali ci posizioniamo ormai da troppo tempo. Chiedendo soluzioni, a fronte di sacrifici. Ma anche di più a noi stessi, non accontentandoci del sentito dire e di opinioni dominanti, volendo conoscere e capire.
Uno dei libri che in maniera assolutamente chiara e inequivocabile può ampliare la nostra comprensione e la nostra visione è stato scritto dall’economista americana Stephanie Kelton, che ho avuto il piacere di conoscere ed ascoltare nel 2012. Molti lo conoscono, si intitola “Il mito del deficit. La teoria monetaria moderna per un’economia al servizio del popolo”.
Partiamo da un’altra conoscenza per comprendere e cambiare le cose: sempre!
Maria Luisa Visione