Quanto è importante il livello di istruzione nella ricerca e nel mantenimento del lavoro?
Questo dibattito, apparentemente scontato, vista la domanda condizionante, non è per niente ovvio in Italia. Dobbiamo prendere atto che l’Europa ci consegna nel 2019 la maglia nera come lavoratori che presentano “tra i peggiori livelli di istruzione” e comprendere che questo fatto non può passare inosservato alla nostra attenzione.
I dati Eurostat parlano chiaro: nel 2019 i laureati italiani ammontavano al 23,4% degli occupati (ci batte solo la Romania) a fronte del dato medio UE 28 del 36,8%, del 47,2% del Regno Unito, 43,3% della Francia e 30,6% della Germania. Per capire la portata di questo numero, osserviamo che esiste un gap di ben 13,4 punti percentuali con la media europea.
Siamo nel 2020 e proprio in questo anno ET 2020, che, ovviamente non è il simpatico extraterrestre portato nelle sale cinematografiche da Spielberg nel 1982, bensì il quadro strategico per la cooperazione europea in materia di istruzione e formazione (forum ideato per consentire a tutti gli Stati membri di scambiarsi le migliori pratiche esercitate) aveva stabilito tra gli otto parametri da raggiungere, anche il livello di tasso di occupazione dei neolaureati. ET 2020, per l’appunto, ambisce di raggiungere l’82% di occupati per i laureati dai 20 ai 34 anni, a tutti i livelli.
Capiamo che si apre una voragine con quella che è l’attuale situazione del nostro Paese dal momento che l’ultimo dato 2018 certifica che in Italia il tasso di occupazione dei neolaureati, da uno a tre anni prima del sondaggio, era del 56,5% e questo è pericoloso perché potrebbe innescare la falsa convinzione generalista che non serve studiare per lavorare.
Se pensiamo che la crisi economica e finanziaria non influenzi questa dinamica è tempo di guardare da un’altra prospettiva. Infatti, ci sono voluti 10 anni per avvicinare i tassi di occupazione dei neolaureati europei ai livelli del 2008, segnale forte per tutti i Paesi aderenti, ma per noi in particolare, dato che nel frattempo è aumentata anche la disparità tra le competenze acquisite e il tipo di lavoro svolto. In particolare, l’istruzione terziaria consente maggiore occupazione, anche se, spesso per entrare nel mondo del lavoro i laureati terziari decidono di fare un passo indietro: sono troppo qualificati ma se vogliono lavorare quello è. E questo risulta ancora più vero quando la domanda di lavoro del mercato è contenuta, come è accaduto negli ultimi anni.
Dovremmo allora soffermarci a pensare che dobbiamo cambiare di netto questa rotta, perché i laureati di oggi dovrebbero diventare domani la classe dirigente e politica del nostro Paese. Come pensiamo che possano riuscire a creare lavoro se da quel mondo sono tenuti fuori o ai margini?
Dobbiamo decidere che vogliamo le competenze nei posti chiave e pretendere assunzione di responsabilità e capacità di mandato. Nei Paesi Bassi il tasso di occupazione dei laureati è del 92%.
Il futuro è nel cambiamento e il cambiamento nella capacità di far agire le competenze, quelle vere.
Maria Luisa Visione