Il recente calo della produzione industriale in Italia ha destato subito allarme e preoccupazione.
Il dato di novembre 2018 pari a -2,6% su base annua e a -1,6% rispetto ad ottobre, in sé è chiaro, ed è scevro da qualsiasi interpretazione positiva. Ci sono 13 settori produttivi industriali su 16 in rosso, secondo l’Istat, ovvero l’80% del totale e, tradotto nella realtà, per molte industrie italiane in sostanza accade di trovarsi di fronte a un trimestre particolarmente negativo che mangia il lavoro di un anno. La prima reazione è guardare all’esterno, al resto dell’Europa, e, osservando bene, non siamo soli, il calo della produzione industriale riguarda anche Germania e Francia.
Ma la domanda chiave è se la notizia indica solo debolezza economica in corso o, invece, l’inizio di una recessione economica. Così cresce l’attesa sul dato del Pil del quarto trimestre, mentre leggendo sempre i dati Istat, scende a dicembre l’indice del clima di fiducia dei consumatori. La fiducia viene rilevata tenendo conto di due dimensioni, quella dell’aspettativa per il futuro e l’altra relativa alle attese sulla disoccupazione, entrambe significative dell’idea del domani. E’ come chiedere al nostro vicino di casa se è disponibile a spendere e ricevere la risposta “non so cosa succederà domani”.
Quello che domina nel sentire e vivere comune è proprio l’incertezza. Quindi si corre a ricercarne i motivi: la Brexit in arrivo, i dazi tra Cina e Stati Uniti, la Germania in crisi sul fronte automobilistico, l’altalena dei mercati. L’effetto generale è che al cittadino sembra di navigare a vista e, come naturale conseguenza, si attende che torni il vento buono. Intanto, ci abituiamo.
Ci abituiamo al 42% di non occupati nel 2017, ma ci sorprendiamo del calo della produzione di un mese. Scorre senza troppo risalto la notizia che solo 3 imprese individuali su 5 sopravvivono a 5 anni dalla nascita. In cinque anni cambia la fotografia del nostro artigianato che scompare lentamente. Soffrono le imprese di costruzione, le attività di falegnameria e quelle di trasporto; si riduce il numero di lavanderie, piastrellisti, imbianchini e fabbri, per non parlare di chi si occupa di tornitura o fresatura.
La mia idea è che tutto è collegato. Ma anche che non è semplice, per niente.
Per questo lancio uno spunto di riflessione su un dibattito che prende sempre più forma nel nostro Paese.
Gli effetti economici che vediamo sono figli di un sistema liberale che ha nel tempo eliminato l’intervento dello Stato come regolatore dell’economia in tutti i settori, a favore della libertà di iniziativa privata.
Eppure da più parti si apre la necessità di ripensare il modello economico-sociale in cui viviamo.
Olivier Blanchard, 69 anni, francese, ex capo economista del Fondo monetario, in un’intervista al Corriere della Sera del 20 dicembre scorso, sostiene che la strada per uno sviluppo sostenibile, duraturo e inclusivo passa dall’alternativa di combinare insieme economia di mercato e intervento statale.
In qualche modo quindi si prende atto che il modello così costruito è fallito e non il contrario.
Allora, perché non ripensarlo e, magari, non soffermarsi sugli effetti ma ricercarne le cause per trovare soluzioni che non siano temporanee, ma durature?
Magari il vento buono può davvero arrivare.
Maria Luisa Visione