Tra i molti elementi del Rapporto Istat 2019 appena pubblicato che ci aiutano a capire il modello socio-economico in cui viviamo, mi hanno colpito particolarmente queste espressioni, che cito testualmente e che vi invito a leggere, mettere pausa, per poi riflettere:
- Un Paese dalle culle vuote.
- Esperienza: un fattore produttivo del futuro.
- Ruolo chiave dei giovani per costruire il futuro.
- Posticipazione della fase adulta.
Tra queste frasi vedo intrecciarsi il cambiamento epocale del “mestiere di vivere” di oggi e trovo un legame più importante e profondo di quello che appare a prima vista, legame generazionale tra un mondo che è quasi scomparso e il mondo che avanza, senza sosta.
Il declino demografico in atto non riguarda soltanto l’Italia, ma da noi è più accentuato e veloce; pensate che nel 2018, i nati in anagrafe sono stati 439 mila, a fronte di 577 mila nel 2008.
Quando ero ragazza a 65 anni eri considerato anziano; l’Istat comunica che oggi la fascia di età 65/74 anni si chiama “tardo adulti”, fantastico! Per ogni 100 giovani ci sono ben 168,9 anziani.
I giovani dai 20 ai 34 anni rappresentano il 16% della popolazione italiana e rispetto a dieci anni fa sono diminuiti di oltre 1 milione e 230 mila unità. Si sono trasferiti all’estero oltre 200 mila giovani dal 2008 ad oggi.
Si diventa adulti, nel senso che si lascia la famiglia d’origine per essere indipendenti economicamente, sempre più tardi: il 56,7% dei giovani (ancora celibi o nubili) vive con almeno un genitore.
A latere di questi dati ne mettiamo un altro, uno per tutti, che è davvero significativo, cioè, il cosiddetto mismatch fra domanda e offerta di lavoro dei giovani laureati, pari al 42,1%.
Su questo dato mi soffermo perché è indice della valorizzazione del capitale umano, che penso sia l’unica chiave di volta per un futuro a colori. In genere, il livello di istruzione rispetto al passato si è innalzato e, questo è un dato buono, ma lo spostamento verso professioni meno qualificate, che, comunque si registra, no. Questo perché capita che per molti il titolo di studio posseduto è più elevato di quanto serva per la mansione svolta, e, ciò, determina insoddisfazione, nonché scarsa valorizzazione del capitale umano.
Come evidenziato da Il Sole 24 ore, in 12 anni (dal 2007 al 2018) solo 42 stranieri sono venuti in Italia per fare ricerca, a fronte di 394 cervelli italiani che hanno scelto università e centri di ricerca esteri. In questa classifica stilata dal giornale economico il primato del paese più attrattivo di talenti è dell’Inghilterra, seguita da Germania, Francia, Olanda, Svizzera e, poi da noi. Quindi, il tema non è che non abbiamo cervelli, ma che ne esportiamo di più di quanto siamo in grado di trattenere.
Se anche voi trovate il filo logico in questi dati, forse siamo d’accordo che in un Paese come il nostro dove si invecchia e si fanno pochi figli, le risorse umane saranno determinanti per lo sviluppo economico futuro.
Perché sinceramente quando sarò nell’emisfero “tardo adulto” vorrei non essere considerata ancora un fattore produttivo, se non per mia scelta. E vorrei che il mio Paese, nel frattempo, trovasse la strada per ripagare con la giusta moneta coloro che credono ancora che il valore della conoscenza sia inestimabile e da difendere. Bisogna incentivare la cultura, i nostri giovani talenti a preferire l’Italia e disincentivare, creando le condizioni economiche per lo sviluppo, i ragazzi di istruzione medio-alta che oggi sistematicamente abbandonano le regioni del Mezzogiorno per andare verso il Nord, attraverso la possibilità concreta di realizzare progetti di vita.
Chissà che non si riempia qualche culla in più!
Maria Luisa Visione